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Quantificare la produzione manoscritta del passato

Ambizioni, rischi, illusioni di una ‘bibliometria storica globale’

  • Eltjo Buringh: Medieval Manuscript Production in the Latin West. Explorations with a Global Database. (Global Economic History Series) Leiden: Brill 2011. XXIII, 569 S. 15 s/w, 15 farb. Abb. EUR (D) 129,00.
    ISBN: 978-90-04-17519-8.
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Tematica e articolazione della ricerca

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Soltanto un ricercatore dal profilo eclettico e dalla curiosità entusiasta ed insaziabile, ma consapevole di essere »a complete stranger in the field« (xii), poteva coltivare l’ambizione immane di quantificare la totalità della produzione manoscritta universale e le sorti da essa subite nei secoli, senza distinzioni di epoche, origini, tipologie materiali e contenuto. Il risultato di un »hobby gone wild« (xi) è un poderoso volume di quasi 600 pagine, arricchito da un centinaio fra figure, grafici e tabelle incorporati nel testo, che tratta – in sette capitoli, integrati da una cospicua sezione di appendici – questioni di fondamentale rilievo per lo storico della cultura scritta: Quanti manoscritti sopravvivono attualmente nel mondo (p. 95–178)? Come può essere stimato, secondo le epoche e i contesti, il loro tasso di perdita (p. 179–252)? Quanti ne sono stati prodotti negli scorsi due millenni e con che distribuzione nel tempo e nello spazio (p. 253–314)? Quali fattori e fenomeni hanno influenzato ritmi e modalità della loro presenza nelle diverse fasi storiche (p. 315–396)? E infine, in che misura l’evoluzione quantitativa della produzione manoscritta può fungere da indicatore di fenomeni socio-economici, oltre che culturali, di più ampio respiro e portata (p. 397–458)? Il carattere frammentario della tradizione, insieme allo stato quantitativamente carente e qualitativamente variegato della catalogazione, giustificano la pressoché totale assenza di risposte a questi quesiti, né possono valere come tali le stime oscillanti e sprovviste di adeguato fondamento occasionalmente reperibili nella bibliografia relativa ai diversi contesti culturali. Nell’introduzione al lavoro (p. 1–14) e nel lungo capitolo in cui espone dettagliatamente i presupposti e i fondamenti del suo metodo (p. 15–94), B. sostiene l’opportunità di un approccio diverso (»a paradigm shift«, p. 3), fondato non sul conteggio esaustivo dei manoscritti repertoriati nelle fonti disponibili, ma sull’impiego di campionature ed elaborazioni numeriche. La novità appare particolarmente significativa se si considera che l’applicazione di metodi statistici alla storia del libro ha dato ampia prova di sé – negli scorsi trent’anni – sul versante dell’analisi codicologica (dando origine al filone di studi noto come ›codicologia quantitativa‹ o ›sperimentale‹), 1 mentre assai rari sono i lavori che affrontano temi di ›bibliometria storica‹, riguardanti il volume e le fluttuazioni della produzione manoscritta sia anteriore che (ancor più) successiva all’affermazione della stampa.

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Se è indubbia – e convincentemente argomentata – l’adeguatezza del metodo statistico rispetto agli obiettivi identificati da B., diversi aspetti dello ›highly unorthodox and indirect method‹ (p. 14) da lui applicato sollevano interrogativi delicati, legati alla definizione del terreno di indagine, ai criteri di costituzione e analisi del campione, all’interpretazione storica dei risultati numerici.

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Ambito di indagine

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Se il titolo del volume di B. contiene un esplicito riferimento al Medioevo latino, che è di fatto l’ambito di riferimento centrale della sua ricerca, lo sguardo dell’autore si allarga fino a comprendere – anche se in forma piuttosto occasionale e sporadica – le culture orientali vicine e lontane (dalle realtà variegate della penisola arabica e del subcontinente indiano, fino all’estremo Oriente e alle Americhe). Tale opzione ›universale‹, dettata dalla volontà di confrontare le conseguenze determinate, in tempi e contesti diversi, dall’introduzione della stampa, 2 conferisce ad alcuni aspetti del lavoro una sorta di ›retrogusto amatoriale‹, costringendo l’autore ad ammettere ripetutamente sia la scarsa affidabilità delle cifre (falsate dalle gravissime carenze della catalografia e dalla quantità delle raccolte ad oggi totalmente inesplorate) che la mancanza delle conoscenze di contesto e delle competenze necessarie a fornirne un’interpretazione plausibile: può bastare, a questo proposito, l’esempio estremo del subcontinente indiano, la cui produzione superstite è valutata, secondo le fonti, in una forchetta compresa fra 400.000 e 30.000.00 manoscritti (p. 104). E d’altra parte, in nessun caso i riferimenti alle culture più lontane forniscono un contributo significativo all’andamento del ragionamento, se si eccettuano i cenni, peraltro generici, alle conseguenze determinate dall’introduzione della stampa in tempi e contesti assai distanti, come l’Asia orientale e l’Occidente latino (p. 121–122, 145, 177, 186).

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L’amplissima estensione cronologica della ricerca (fra il I e il XIX sec.) ispira analoghe riserve. A B. preme in particolare argomentare come nell’Occidente latino il tasso di perdita/scomparsa (»loss rate«) delle testimonianze manoscritte abbia subito una crescita significativa nei secoli successivi al Medioevo; le considerazioni sulla dispersione o dissoluzione delle biblioteche monastiche in connessione con gli eventi traumatici, di natura religiosa o bellica, verificatisi nelle diverse regioni d’Europa, rimangono su un piano puramente aneddotico.

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Qualche perplessità suscita anche la scelta di includere fra i ›manoscritti‹ ogni sorta di »end product of handwriting on either natural organic material or man-made paper« (p. 16), mescolando in un’unica base di dati oggetti di natura e funzione assai diversa – libri (comprese le unità palinseste), documenti, volumi d’archivio, tavolette lignee latine e tibetane, testi cinesi o indiani su stoffa – i cui livelli di produzione e di perdita appaiono difficilmente comparabili; un approccio decisamente ›inclusivo‹ che contrasta con il disinteresse dimostrato, almeno in sede di discussione metodologica, per il fenomeno dei codici strutturalmente complessi e la quantificazione delle unità librarie in essi contenute.

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Modalità di costituzione e strutturazione del campione indagato

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Il ›database globale‹ su cui si fonda la maggior parte delle ›esplorazioni‹ di B. annovera oltre 30.000 segnature, i cui criteri di raccolta e organizzazione sollevano – come in tutte le indagini quantitative fondate su campionature costruite ad hoc – problemi molto delicati di rappresentatività e affidabilità. 3

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Il campione, gradualmente costituito e raffinato nel corso di un decennio di lavoro, è integralmente composto da dati di seconda mano, attinti ad una non meglio precisata »extensive library« (p. 19), di fatto una biblioteca (privata o addirittura personale?) dalla consistenza relativamente limitata di circa 2.100 volumi, fra libri e riviste. Chiunque si sia cimentato nella costruzione di un corpus di libri o documenti manoscritti finalizzato alla realizzazione di un’indagine quantitativa conosce bene le difficoltà, talora insormontabili, determinate dalla qualità eterogenea e complessivamente scadente delle fonti disponibili: 4 difficoltà ben presenti anche a B., il che non impedisce di nutrire dubbi sulla validità di alcuni dei criteri di selezione da lui adottati, che si riflettono sui risultati delle elaborazioni. Tali dubbi riguardano non soltanto la natura non dichiarata e la fisionomia assai vaga della raccolta di libri e riviste adoperata come base per la campionatura, 5 ma anche la quantità (inevitabilmente assai esigua) e la qualità dei descrittori associati alle singole unità repertoriate nel database. Dalla necessità di schedare in maniera uniforme una mole consistente di dati relativi ad oggetti molto distanti nel tempo e nello spazio derivano infatti approssimazioni assai severe, non prive di conseguenze sull’elaborazione dei risultati. Ad esempio, il carattere forzatamente onnicomprensivo della suddivisione tipologica dei testi in sette fondamentali »categories of uses« (p. 50) – manoscritti religiosi di ambiti politeistici; sacri e liturgici monoteistici; a fini di devozione privata; di natura amministrativa; educativi; ricreativi; a prevalente contenuto visivo – ne condiziona gravemente l’operatività. Lo stesso vale per la ripartizione geografica dei manoscritti in 24 aree di estensione molto varia e talora di dubbia pertinenza (p. 24, tab. 2.1), in quanto definite sulla base degli attuali confini nazionali; d’altra parte, il raggruppamento in 5 macroaree regionali (»regional global clusters«) – oriente musulmano, occidente latino, oriente cristiano ortodosso, subcontinente indiano (mono e politeista), Asia orientale (politeista) – allarga eccessivamente le maglie della griglia, rivelandosi, nella pratica, scarsamente operativo. Non imputabile all’autore, e tuttavia fortemente penalizzante rispetto agli obiettivi della ricerca, è la scarsità delle variabili censite nel database, circoscritte di fatto a datazione, localizzazione, contenuto, sede di conservazione e segnatura: un limite particolarmente grave è dato dall’assenza di indicazioni sulle caratteristiche materiali (soprattutto dimensioni e mise en page), grafiche e decorative dei manoscritti censiti, e di un giudizio anche approssimativo sulla qualità del loro allestimento.

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Alle incertezze sulla rappresentatività del campione così costituito, B. propone di ovviare – per il solo ambito latino – istituendo una serie di confronti con altri corpora di estensione più ridotta (rotoli e codici di provenienza egiziana, Vangeli antichi, inventari di beni ecclesiastici egiziani e di biblioteche medievali, bestiari, cataloghi di codici datati, 6 Alba amicorum olandesi di età moderna), costituiti dai rispettivi autori sulla base di criteri più rigorosi e etichettati pertanto come »gold standards« (p. 20). Considerata la natura occasionale, la dispersione cronogeografica e la composizione disparata di questi ipotetici standard, non convince la proposta dell’autore di estrapolarne all’intero corpus i risultati (più o meno nettamente) positivi scaturiti dai confronti (»when the database subset compare favourably with the presumed standards we may assume that other unchecked parts of the database would have compared favourably as well«, p. 26). B. sembra ignorare o trascurare, d’altra parte, l’esistenza di corpora più ampi e sistematici, e come tali statisticamente più significativi, quali quelli messi insieme da Carla Bozzolo ed Ezio Ornato, Malachi Beit-Arié e Marilena Maniaci (gli ultimi due autori non figurano nella bibliografia finale del volume). 7

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Risultati numerici e loro interpretazione storica

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Applicando i metodi annunciati nell’Introduzione e descritti nel secondo capitolo metodologico (fra i quali rientra anche un discutibile procedimento di estrapolazione fondato sul carattere alfanumerico delle segnature, spesso mutate nel corso del tempo, strutturalmente molto varie e solo raramente fedeli ai sistemi di classificazione antichi), nel terzo capitolo B. fornisce per la produzione ad oggi superstite la stima impressionante di 2.900.000 manoscritti, distribuiti fra biblioteche (1.500.000), archivi, musei e collezioni private. Il contributo dell’Occidente latino, stimato in circa 1.300.000 manoscritti, tradisce una probabile sottovalutazione della produzione medio- ed estremo-orientale (p. 100), che conferma i dubbi sull’approccio ›omnicomprensivo‹ adottato per la costituzione del database; piuttosto sorprendente, e sprovvista di qualunque fondamento – ma indicativa delle generalizzazioni cui l’autore indulge anche in altri punti del lavoro –, appare in ogni caso l’affermazione che i manoscritti globalmente superstiti siano »at least some fifteen million» (p. 119).

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L’incertezza insita nelle stime formulate in base al proprio metodo, da ritenersi »mere indications of an order of magnitude«, non sfugge comunque a B., che ne propone l’accostamento – di fatto meno convincente di quanto egli lasci intendere – con le cifre reperite nella bibliografia a lui nota limitatamente ad alcuni ambiti (codici arabi, ebraici, armeni, latini di area tedesca, bizantini). 8 Esiti globalmente migliori produce il confronto fra la stima della consistenza di alcune biblioteche fondata sui codici accolti nel database e le cifre ›reali‹ disponibili per le stesse istituzioni; anche in questo caso, tuttavia, alla convergenza registrata a livello globale si oppongono gli scarti, anche assai elevati, relativi ad alcune sedi. I risultati in assoluto più convincenti derivano da un terzo confronto, limitato all’Occidente latino, fra le informazioni fornite dal database e quelle ricavabili, per l’Occidente latino, dal repertorio di Paul Oskar Kristeller 9 (p. 110, Table 3.3); meno riuscito appare invece il tentativo di ›forzare‹ le cifre ricavate da Kristeller, addizionandovi l’apporto presunto delle biblioteche mancanti al fine di avvicinarne il totale (pari a circa 1.000.000) a quello stimato per il database. Una volta convalidata, la stima dei codici superstiti funge da base per un’ampia disamina dell’evoluzione cronologica degli usi in funzione delle cinque macroaree e delle sette categorie di contenuto già citate: il risultato implica, per l’Occidente latino (per le altre culture l’attenzione si concentra quasi esclusivamente sugli effetti determinati dall’introduzione della stampa), l’individuazione di continuità e transizioni corrispondenti al susseguirsi di quattro fasi storiche – »early-Christian equilibrium« (VI-VII sec.), »early medieval stability« (IX-X sec.), »from uniformity to differentiation« (XII-XIII sec. ), »fragmentation of uses« (XIV-XV sec.) –, caratterizzate, secondo epoche ed aree volta per volta raggruppate in mutevoli ›clusters‹, da variazioni significative del rapporto fra manoscritti di contenuto cristiano e profano, su cui B. tornerà ancora a soffermarsi nel sesto capitolo.

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Alla quantificazione della produzione superstite segue, nel quarto capitolo, la stima dei tassi di perdita intervenuti fra un secolo e l’altro, attribuiti a fattori ›usuali‹ o ›causali‹ (direttamente dipendenti dalla natura del supporto e dalle condizioni di conservazione), ›accidentali‹ (determinati da cause esterne, occasionali ed imprevedibili), ›culturali‹ (dovuti a mutamenti di ordine sociale o tecnologico), ›non casuali‹ (provocati dalla distruzione deliberata di specifiche tipologie di manoscritti, come avvenuto ad esempio nella Bisanzio iconoclasta o nella Spagna della ›Reconquista‹). Come in altre circostanze, un esempio specifico – rappresentato in questo caso dalle biblioteche britanniche studiate da Neil Ker 10 – diviene il solo fondamento di un processo di estrapolazione esteso all’intero Occidente latino; tramite un espediente mirato ad includere nel calcolo le biblioteche oggi completamente scomparse (fissandone arbitrariamente la consistenza media a 40 manoscritti) B. ipotizza per il medioevo perdite variabili, fra un secolo e l’altro, fra il 25% e il 40%, significativamente inferiori a quelle occorse nei secoli successivi all’introduzione della tipografia. Sostanzialmente privi di attendibilità risultano – per ammissione dello stesso autore – i calcoli relativi alle altre quattro aree, fondati su informazioni sporadiche e puramente aneddotiche (p. 220, Table 4.5).

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Al quinto capitolo è affidata la quantificazione dei ritmi di produzione manoscritta originaria – sostanzialmente circoscritta al mondo latino e al ›millennio medievale‹ – e il suo confronto, per singole epoche e contesti, con informazioni storiche, quantitative e qualitative, di varia natura. Il risultato è una stima globale di circa 11.000.000 manoscritti prodotti, ottenuta moltiplicando le cifre contenute nel database (pesantemente modificate dall’applicazione dei correttivi illustrati nel capitolo metodologico) per il ›fattore di sopravvivenza‹ (»reciprocal survival factor«) desunto dai tassi di perdita calcolati in precedenza. Dai totali per secolo (Table 5.5, p. 261) e per area geografica (Table 5.6, p. 262), la produzione appare cresciuta di quasi 400 volte fra l’inizio e la fine del medioevo, sia pure con sensibili variazioni cronogeografiche: anche in questo caso i risultati – non tutti plausibili, come si dirà – sono paragonati con altri set di dati riguardanti manoscritti e libri a stampa (codici di area germanica del XV secolo, scribi altomedievali, biblioteche medievali francesi, incunaboli): Gli esiti vistosamente divergenti dal confronto con le stime fornite per il XV secolo da Uwe Neddermeyer sono frettolosamente liquidati imputandoli alle distorsioni che affetterebbero la campionatura utilizzata dallo studioso. 11 Il quinto capitolo si conclude con un tentativo di analisi della domanda, fondato su una stima grossolana del numero di chierici e laici lettori e della quantità media di manoscritti che ciascuno di essi avrebbe utilizzato, e su una discussione globale dei risultati, dei quali B. è costretto ad ammettere l’estrema incertezza (»the errors in the various steps of the estimation process of the production rates have been considerable and the overall uncertainty is large«, p. 313–314).

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Un’ampia trattazione – non riassumibile in poche righe – è dedicata, nel sesto capitolo, all’interpretazione storico-culturale delle cifre prodotte per l’Occidente latino (con incursioni occasionali in altri ambiti), sostenuta da informazioni riguardanti la demografia e la geografia degli insediamenti monastici. La situazione relativa alle undici aree di cultura latina è esaminata entro la cornice della già introdotta periodizzazione in quattro fasi (»early-Christian equilibrium«, »early medieval stability«, »from uniformity to differentiation«, »fragmentation of uses«). Prevedibilmente, le linee generali del quadro delineato da B. forniscono la conferma numerica di alcuni fenomeni storici ben noti: fra gli altri, la transizione dalla cultura tardoantica al medioevo monastico; l’impulso subito dalla produzione in epoca carolingia e la sua decrescita nel X secolo; l’intensificazione e la diversificazione della richiesta e del consumo librario in ambito urbano e universitario e la comparsa di una produzione su base privata. Anche sotto il profilo della distribuzione geografica, il database riflette il primato assoluto e relativo dell’Italia come centro di produzione del libro nel VI secolo ed il suo declino del secolo seguente, bilanciato dagli effetti dell’attività missionaria irlandese sulla creazione di nuove fondazioni monastiche nell’Europa nord-occidentale; la netta affermazione di Francia, Belgio e Germania occidentale in età carolingia; l’impulso registrato nella Spagna nel X secolo a seguito della fondazione di nuovi monasteri e la rinnovata fioritura dell’Italia in epoca rinascimentale. Meno prevedibili, e di valore assai più incerto, sono i »deviant values« (p. 301) ottenuti per singole aree di estensione ridotta e conseguentemente poco rappresentate nel database (paradigmatico il caso del Belgio, che esibisce livelli abnormemente elevati di produzione stimata, storicamente inammissibili malgrado la difesa tentatane da B.).

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Il settimo e ultimo capitolo mira, infine, ad accreditare la produzione di manoscritti – in quanto beni di lusso e rivelatori di status sociale – come indicatore prezioso (»yardstick«, »pietra di paragone«, p. 397) per indagare l’evoluzione nel tempo dei livelli di prosperità economica nella diverse aree dell’Europa medievale: un’ipotesi a priori plausibile, confermata dal raffronto fra i livelli di produzione manoscritta e altre variabili, quali il numero di monasteri e diocesi, i tassi di urbanizzazione o il numero di università medievali. Anche in questo caso, i tentativi di sconfinamento al di là del Medioevo e oltre le frontiere della latinità, ostacolati da »a lack of reliable additional data« (p. 441), si traducono in osservazioni tanto sporadiche ed ipotetiche da risultare prive di sostanziale rilievo.

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Considerazioni conclusive

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La rapida sintesi proposta non dà conto della quantità e rilevanza delle questioni evocate da B., né della complessità delle procedure messe in campo per affrontarli. La padronanza e la disinvoltura esibite nell’applicazione di sofisticate tecniche di statistica inferenziale, e in particolare delle procedure di analisi della varianza, rappresentano il principale punto di forza dell’autore – dotato della rara capacità di coniugare il possesso di solide competenze statistiche con uno sforzo serio – ancorché limitato negli esiti – di documentazione storica. L’elevata tecnicità dell’approccio costituisce, al tempo stesso, un ostacolo per l’ ›umanista medio‹, solitamente sprovvisto dell’attrezzatura necessaria per seguire e valutare i passaggi più complessi delle argomentazioni e dei calcoli proposti. Il tentativo, non pienamente riuscito, di risultare comprensibile a lettori di formazione diversa spinge l’autore all’adozione di uno stile espositivo ›misto‹: da un lato, ricco di spiegazioni matematiche (talora assai ostiche) ma lontano dall’abbondanza di formule e dimostrazioni propria delle trattazioni statistiche; dall’altro, appesantito da dettagliati excursus su singoli manoscritti, che interrompono senza reale necessità il flusso dell’argomentazione. Anche il glossario finale (p. 527–541) riflette, nella selezione dei termini e nella costruzione delle definizioni (attinte a un novero ristretto e composito di fonti, tra cui Wikipedia), l’operato di un apprendista indubbiamente motivato e brillante, ma la cui formazione »is not in economical, historical, codicological or palaeographical field of expertise« (p. 14).

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Dalla mancanza di un background paleografico-codicologico adeguatamente solido, oltre che di una conoscenza approfondita del tessuto culturale sottostante, deriva a B. la convinzione che le vicissitudini della produzione e conservazione selettiva del patrimonio manoscritto possano essere ricostruite, in una prospettiva globale e lungo un arco assai ampio di secoli, applicando ad un campione numericamente circoscritto e corredato da una gamma ridotta di variabili una griglia uniforme e rigida di analisi, avulsa dalla valutazione di specifici contesti e circostanze storiche. Così, ad esempio, l’adozione di una scansione rigida per secoli, indipendente dalle tipologie di testi e di oggetti manoscritti, induce B. a concentrare l’attenzione sulle differenze numeriche constatate fra un secolo e l’altro, ignorando o sottovalutando l’impatto dei fattori storici ›di lunga durata‹ – in particolare la perdita del valore d’uso degli oggetti e l’evoluzione del loro valore commerciale – che hanno condizionato, in maniera fortemente selettiva, il degrado del patrimonio librario manoscritto, riflettendosi sulla rappresentatività della frazione sopravvissuta fino ad oggi.

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La tendenza alla generalizzazione dell’approccio e alla conseguente semplificazione delle interpretazioni emerge anche nella scelta degli indicatori e dei procedimenti statistici, a cominciare dall’enfasi attribuita alle percentuali di ›varianza spiegata‹ (»explained variance«) 12 come criterio esclusivo di validazione delle distribuzioni riscontrate nel database o dei confronti istituiti con altri subset di dati attinti a fonti esterne. Pur riconoscendo alla ›explained variance‹ il pregio di ridurre concetti complessi ad un semplice valore numerico, B. non ignora che »this simplicity is also is [sic] a drawback of this method, as the historical complexity of different patterns of uses can seldom be reduced to just one number« (p. 173): tale consapevolezza non gli impedisce tuttavia di affidare a questo singolo parametro la conferma delle proprie ipotesi, anche nei casi in cui le cifre cui esso fa riferimento presentino, nel dettaglio, discrepanze notevoli.

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Il piacere evidente che B. dimostra nella ricerca alacre di informazioni e nella raccolta infaticabile di cifre da elaborare – attinti a fonti di natura qualitativamente e quantitativamente svariata – sembra essere talora il vero motore della sua ricerca: ne sono prova la frequenza e la disinvoltura con cui interviene sui dati di partenza, sottoponendoli a una varietà di interventi di calibrazione finalizzati a correggerne le distorsioni geografiche, cronologiche o tipologiche, ovvero assoggettandoli ad interpolazioni arbitrarie per ovviare all’assenza nel database di informazioni relative a determinati secoli o contesti. Il cumulo delle manipolazioni applicate determina a volte scostamenti sensibili, e difficilmente controllabili, rispetto ai contenuti originari del database, senza che sia possibile controllare i fattori storici che possono aver influito sulle sotto- o sovrarappresentazioni constatate o semplicemente ipotizzate per alcuni sottogruppi.

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Nella quasi totale assenza di stime alternative fondate su campioni diversi da quello messo insieme ed ›esplorato‹ da B., il lettore profano corre il rischio di lasciarsi catturare dall’autorevolezza apparente di calcoli e cifre; e tuttavia, almeno in alcuni casi i risultati numerici appaiono in evidente contraddizione con gi esiti di altre indagini statistiche o con le risultanze della ricerca qualitativa. Colpiscono ad esempio, come si è già accennato, le divergenze radicali, in termini sia assoluti che relativi, rispetto alle stime della produzione manoscritta e stampata di area germanica proposte da Uwe Neddermeyer (pp. 264–268). Se gli scarti in valore assoluto possono essere spiegati da fattori sistematici, lo scarto relativo non può che essere il prodotto di effetti di struttura riconducibili alla composizione dei corpora utilizzati come base per il calcolo, che non sembrano in toto imputabili come vorrebbe B., al fatto che il suo predecessore »did not have the right basis to make his estimates« (p. 268). Altri risultati, anche se privi di confronti diretti, appaiono – agli occhi dello storico del libro – evidentemente privi di verosimiglianza: è da escludere, ad esempio, che un paese piccolo come il Belgio, benché particolarmente ricco di insediamenti monastici (p. 359) e particolarmente attivo nell’esportazione di volumi miniati (p. 434–438), abbia prodotto più codici dell’attuale Germania.

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Malgrado gli sforzi compiuti per arricchire la propria formazione storica, l’approccio di B. al mondo del manoscritto rimane quello dello statistico di professione, la cui preoccupazione principale consiste nel selezionare, fra le informazioni storiche a sua disposizione, quelle più adatte a confermare la correttezza dei calcoli e dei risultati che ne conseguono. Lo storico quantitativista opera – o dovrebbe operare – nella prospettiva opposta, costruendo sulla base di un’ipotesi compatibile con i dati storici un corpus finalizzato a verificarne il fondamento e ad approfondirne i dettagli. 13

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Le riserve espresse non impediscono di riconoscere a B. il coraggio e il merito di aver richiamato l’attenzione su una serie di questioni cruciali per lo storico del libro, compiendo lo sforzo di elaborare metodi originali e stimolanti per affrontarle. Non rimane da sperare che l’autore riesca, nel seguito delle sue ricerche, ad affinare il proprio approccio – magari riducendo e precisando la portata degli obiettivi –, ma anche che l’enorme lavoro preliminare da lui compiuto venga messo a disposizione della comunità scientifica, attraverso la pubblicazione del database, secondo quanto previsto fra le finalità del progetto »Global Historical Bibliometrics«. 14

 
 

Anmerkungen

Per un articolato panorama dei presupposti metodologici, degli ambiti di applicazione e dei risultati più significativi cf. Ezio Ornato: »L’histoire du livre et les méthodes quantitatives«. In: La face cachée du livre médiéval. L’histoire du livre vue par Ezio Ornato, ses amis et ses collègues. Avec une préface d’Armando Petrucci (I libri di Viella 10). Roma: Viella 1997,p.  607–679.   zurück
Tale obiettivo risulta più chiaramente esplicitato in Eltjo Buringh / Jan Luiten van Zanden: »Charting the ›Rise of the West‹. Manuscripts and printed Books in Europe, a long-term Perspective from the sixth through eighteenth Centuries«. In: Journal of Economic History 69 (2009), 410–446 (anche on line, URL http://vkc.library.uu.nl/vkc/seh/research/Lists/Research%20Desk/Attachments/14/Charting%20the%20%27Rise%20of%20the%20West%27.pdf [22.03.2012]), qui 436 sg.   zurück
Cf. Marilena Maniaci / Ezio Ornato: »Che fare del proprio corpus? I«. In: Gazette du livre médiéval 22 e 23 (1993), 27–37 e 18–27.    zurück
Per una descrizione paradigmatica dei problemi sollevati dalla costituzione di un campione finalizzato ad un’indagine sulla fascicolazione dei manoscritti medievali cf. Paola Busonero: »La fascicolazione del manoscritto nel basso medioevo«. In: Paola Busonero / Maria Antonietta Casagrande Mazzoli / Luciana Devoti / Ezio Ornato: La fabbrica del codice. Materiali per la storia del libro nel tardo medioevo (I libri di Viella 14). Roma: Viella 1999, 31–139, qui 39–43.    zurück
Basti notare che su appena quattro riviste sistematicamente spogliate (p. 22) – Scriptorium, Manuscripts of the Middle East, Journal of Mediaeval History, Imagination – solo le prime due hanno carattere esclusivamente paleografico-codicologico, mentre l’ultima è del tutto priva di diffusione fra gli ›addetti ai lavori‹.   zurück
Sono espressamente esclusi dal computo (p. 40) i numerosi e innovativi volumi della serie dei ›Manoscritti datati d’Italia‹ (elenco aggiornato all’URL http://www.manoscrittidatati.it/mdi/volumi.htm [22.03.2012]), in quanto contenenti in prevalenza manoscritti di origine italiana.   zurück
Del database »SfarData«, contenente la descrizione paleografico-codicologica dettagliata e la documentazione fotografica di quasi 7.000 codici ebraici in prevalenza datati, è attualmente in corso di elaborazione una versione on-line, URL: http://sfardata.nli.org.il (22.03.2012); sulla storia, le finalità e le caratteristiche del progetto cf. ad es. Malachi Beit-Arié: SFARDATA: the Henry Schiller codicological Database of the Hebrew Palaeography Project, Jerusalem. In: Gazette du livre médiéval 25 (1994), 24–29. Un corpus di circa 700 manoscritti costituisce la base della ricerca di Marilena Maniaci: Costruzione e gestione della pagina nel manoscritto bizantino, Cassino: Edizioni dell’Università degli studi di Cassino 2002.    zurück
Gli scostamenti oscillano fra –29 e +33%.   zurück
Paul Oskar Kristeller / Sigrid Krämer: Latin manuscript Books before 1600. A List of printed Inventories and unpublished Catalogues of extant Collections. 4th rev. and enlarged edition by Sigrid Krämer (Monumenta Germaniae Historica. Hilfsmittel 13). München: Monumenta Germaniae Historica 1993 (versione on line all’URL http://www.mgh-bibliothek.de/kristeller/ [22.03.2012]). Non è incluso nei calcoli il più recente supplemento di Sigrid Krämer / Birgit Christine Arensmann: Paul Oskar Kristeller. Latin manuscript Books before 1600. A List of printed Inventories and unpublished Catalogues of extant Collections. Ergänzungsband 2006 (Monumenta Germaniae Historica. Hilfsmittel 23). Hannover: Hahnsche Buchhandlung 2007.   zurück
10 
Neil Ripley Ker: Medieval Libraries of Great Britain. A List of surviving Books. London: Royal Historical Society 19642; non è citato il volume di supplemento di [Neil Ripley Ker] / Andrew G. Watson: Medieval Libraries of Great Britain: a List of surviving Books. Supplement to the second Edition. London: Royal Historical Society 1987; una riedizione digitale del repertorio è attualmente in corso di realizzazione (URL: http://digital.humanities.ox.ac.uk/ProjectProfile/Project_page.aspx?pid=150/ [22.03.2012]).   zurück
11 
Uwe Neddermeyer: Von der Handschrift zum gedruckten Buch. Schriftlichkeit und Leseinteresse im Mittelalter und in der frühen Neuzeit. Quantitative und Qualitative Aspekte.Bd 1: Text, Bd 2: Anlagen (Buchwissenschaftliche Beiträge aus dem deutschen Bucharchiv München 61). Wiesbaden: Harrassowitz 1998.   zurück
12 
»This is the fraction of the variance in one of the distributions that can be explained by that of the other […]. In practice this amount of explained variance can quite simply be calculated as the square of the correlation coefficient between two different distributions (of manuscripts)« (p. 65).    zurück
13 
Marilena Maniaci / Ezio Ornato I (nota 3).   zurück
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